Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
Difensori del Leopardi
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 210, p. 3
Data: 4 settembre 1955


pag. 3




   Alcuni lettori mi hanno scritto per difendere Leopardi a proposito di quel che dicevo di lui, l'ultima volta, parlando della felicità. Queste lettere mi hanno fatto grande piacere perchè dimostrano che in Italia v'è ancora qualcuno che serba la religione del genio e del dolore. Confesso, però, che in queste difese ho ammirato i buoni sentimenti assai più che l'acutezza dell'intelletto.
   Quasi tutti ripetono le solite notizie, sapute e arcisapute, sulle miserie, le malattie e le sventure del Leopardi, aggiungendo che in quelle condizioni, egli non poteva fare a meno di lamentarsi della vita umana. Qualcuno giustifica le sue invettive contro la natura affermando che erano un innocente sfogo poetico del suo animo oppresso dalla universale condanna al disincanto.
   Tutte queste verissime e bellissime cose io le conoscevo molto prima e, forse, un po' meglio dei miei appassionati replicanti, ma io conosco anche un'altra verità, cioè che la più alta grandezza dell'uomo veramente grande consiste nel superare e sormontare le contingenze avverse del suo destino personale. Dissi già, nella pagina incriminata, che Schiller e Beethoven furono perseguitati dalle infermità e dalle tribolazioni, ma che seppero rispondere con eroica forza alla loro infelicità fino al punto di cantare l'inno alla gioia. Se Dante si fosse lasciato dominare dai suoi casi personali, lontano com'era dalla patria, dalla famiglia, dagli amici, affamato non sfamato di fama, mortificato dalle miserie della vita errante e quasi mendica, avrebbe potuto lamentarsi e disperarsi quanto il poeta di Recanati. Invece il poeta di Firenze si contenta di pochi accenni alle sue disavventure e prende per la mano i suoi fratelli peccatori e dolenti per inalzarli dalla selva buia del male fino agli splendori del Paradiso. Il segno supremo del vero uomo è quello di non lasciarsi sopraffare dalle circostanze nemiche, ma di rispondere arditamente col «sì» della creazione a tutti i «no» della distruzione e della negazione.
   Ma c'è un'altra verità ancor più valida nel caso nostro. Un uomo, il quale abbia una sicura visione dei valori umani e non appartenga alla sequela dei piagnoni cronici, arriva sempre a computare che il male è sopravanzato dal bene e che perciò il bilancio finale è attivo.
   Leopardi ebbe poca salute, corpo deforme, angustie e strettezze che gli tolsero la libertà di vivere dove voleva e l'agio di lavorare a modo suo, genitori che non lo compresero, compaesani che lo deridevano mentre da nessuna donna fu veramente amato. Ma si guardi il rovescio della medaglia: Leopardi possedeva il divino potere della creazione poetica, la luce del genio, la capacità di apprendere e di comprendere, il senso dell'arte e della natura, la profondità e la tenerezza dei sentimenti. Se non fu amato abbastanza dal padre e dalla madre conobbe, in compenso, l'amore fedele di un fratello e di una sorella, il caldo affetto di parecchi amici, l'ammirazione sincera di letterati illustri e di studiosi stranieri. Non fu baciato da una donna innamorata, ma ebbe, prima della morte, il bacio della fama, quel bacio che, per un artista, vale più di ogni altro. Se avesse tenuto conto di ciò che più altamente vale invece di abbandonarsi a prolisse e vane querele, il Leopardi avrebbe dovuto riconoscere che anche nella sua persona le grazie superavano le disgrazie, che le virtù erano superiori alle fralezze, che i doni erano più abbondanti e preziosi delle lacune, che le fortune, insomma, erano assai più grandi delle sventure. I rari momenti di contemplazione estatica, di ispirazione lirica e di rivelazione mentale furono da lui pagati a modico prezzo con le miserie della carne e della borsa.
   Insomma, il Leopardi apparisce spesso — come pensatore — troppo soggettivo, troppo frettoloso, troppo egocentrico: nel suo Cosmo, avrebbe detto Poe, c'era troppo Ego.
   Però, nonostante tutto, sbaglierebbe di grosso chi vedesse in me un antileopardiano. Se qualcuno ha letto, per caso, nei miei libri, la Leggenda Argentea di Giacomo Leopardi o il Discorso sulla Felicità di Leopardi o, meglio ancora, la poesia intitolata Preghiera per Leopardi, sarà persuaso che pochi, al par di me, possono avere per il poeta dell'Infinito, tanta venerazione e tanta tenerezza.


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